Teodorico Pedrini C.M.
Fermo 30.6.1671
Beijing 10.12.1746

 

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Teodorico Pedrini

SON MANDATO À CINA, À CINA VADO

Lettere dalla Missione 1702-1744

a cura di
Fabio G.
Galeffi e Gabriele Tarsetti
Prefazione di Francesco D’Arelli

Ediz. QUODLIBET 

 

 

PREFAZIONE DI FRANCESCO D'ARELLI

 

Chiunque dovrà accogliere con gaudio la pubblicazione delle Lettere dalla Missione di Teodorico Pedrini, curata da Fabio G. Galeffi e Gabriele Tarsetti. Le cento e più epistole, trascritte e commentate in modo essenziale, rivelano la figura intima e pubblica di un uomo, prima ancora di un missionario vissuto in Cina per oltre trent’anni. Un uomo raffinato, colto, talentuoso, spesso malinteso, perché capitato nel periodo più triste e caotico dell’epopea di evangelizzazione dell’Asia Orientale e della Cina in particolare. Anni profondamente segnati da litigi, perfidie, sospetti, accuse reciproche fra uomini accomunati dalla vita religiosa e da una medesima vocazione: la conversione all’Evangelio del dotto e paganissimo popolo cinese.

Eppure le epistole di Pedrini, al pari di quelle inedite e ancora manoscritte di altri numerosi ed eminenti protagonisti di quel mezzo secolo fra il 1700 e il 1750, mostrano, anche ai più parziali e increduli, una realtà difficile, complessa e variegata ovunque, contrariamente a tanta storiografia che indulge a distinguere semplicemente fra Gesuiti, da una parte, e tutto il resto, dall’altra. Che Pasquale D’Elia, gesuita e insigne studioso del cristianesimo in Cina, in una sua opera dedicata al confratello João Mourão (1681-1726), missionario in Cina, e pubblicata solo postuma, potesse percepire Pedrini come «enigmatico e difficile» equivale più o meno a una sua benevola sepoltura o a un rassicurante oblio! Ancora oggi, la soverchiante letteratura prodotta intorno all’azione perseguita dalla Compagnia di Gesù in Asia sin dalla seconda metà del XVI secolo riflette da ultimo un orientamento piuttosto “gesuiticocentrico”, nel senso della diffusa convinzione che i giganti di quell’impresa memorabile furono soprattutto Gesuiti, nonostante la diversa testimonianza delle fonti edite da altri ordini religiosi, in primis dai Frati Minori con la monumentale Sinica Franciscana (1929-2006, voll. I-XI). Si comprende allora l’esultanza per la pubblicazione di queste Lettere dalla Missione, perché sono un’altra autorevole voce, un’altra musica, altrettanto armoniosa e suadente.

Le epistole raccolte, trascritte e commentate dai curatori giungono principalmente da due archivi, essenziali fra i tanti dell’Italia, entrambi ubicati a Roma, capitale anche per la ricchezza di fonti documentarie manoscritte per chiunque sia interessato alla storia delle missioni cattoliche in Cina nei secoli XVI-XVIII. En passant, osservo come non pochi degli odierni studiosi, presi dagli eventi di questa storia, preferiscano girovagare per il mondo piuttosto che frequentare gli archivi italiani, verosimilmente anche per una ragione decisiva: l’apprendimento delle lingue latina e italiana per la lettura, la comprensione e lo studio delle tante carte preservatevi non è dopotutto un divertissement, anzi è una fatica a misura di pochi. Ebbene, i due archivi sono: l’Archivio Storico del Collegio Leoniano, sede della Provincia Romana della Congregazione della Missione, o più semplicemente nota dei Lazzaristi, e l’Archivio Generale dell’Ordine dei Frati Minori, ove per vicende fortunose giunse una parte rilevante dell’Archivio dell’Arcidiocesi di Hankow. Le Lettere dalla Missione sono allora solo un assaggio, sebbene tra i più sapidi, di quanto Pedrini poté scrivere e che in parte ancora si preserva manoscritto in svariati archivi e biblioteche italiani.

Dalla ricerca e studio della diversa documentazione d’archivio, i curatori riescono con puntuale ricchezza di particolari ad affrescare il numeroso nucleo famigliare dei Pedrini, che, in virtù della carriera notarile di Giovanni Francesco, si stabilì definitivamente all’inizio della seconda metà del Seicento a Fermo, ove nacque il nostro Paolo Filippo Teodorico il 30 giugno 1671. La famiglia Pedrini appare, d’altra parte, anche ben collegata con il tessuto sociale più influente della città di Fermo e al contempo con i circoli ecclesiastici di Roma. Sarebbe diversamente difficile immaginare l’agio e la facilità che favorirono così tanto la vita del nostro una volta a Roma. Tuttavia, Teodorico compì tutti i suoi studi a Fermo, sino al conseguimento della laurea in Utroque iure nel giugno del 1692. È verosimile, come richiamato a ragione dai curatori, che fu proprio nella sua città natale che il nostro cominciò a coltivare il talento per la musica, una disposizione che lo rese noto e stimato negli ambienti della corte imperiale cinese. A Roma, dove giunse poco più che ventenne e dove fu attivo dal 1692 al 1702, anno della partenza per la Cina, Teodorico poté arricchire e approfondire i suoi studi teologico-filosofici e sovrattutto conoscere e frequentare i salotti più vivaci dell’epoca, animati da artisti, eruditi ed eminenti porporati, tutti protagonisti, o perché destinatari o perché solamente citati, del suo corposo epistolario. A Roma, Teodorico perfezionò di certo lo studio e la pratica della musica, un’arte che risentì indubbiamente del genio del musicista ravennate Arcangelo Corelli, questi noto al Nostro, stando alle argomentazioni dei curatori.

Se l’adesione di Teodorico nel 1696 all’Accademia dell’Arcadia segnò il riconoscimento della Roma culturale del suo valore come uomo di lettere e arti, l’entrata nella Congregazione della Missione, o più comunemente dei Lazzaristi, con la professione dei voti definitivi nel febbraio 1700, dopo aver già ricevuto il diaconato (1698) e ottenuto il sacerdozio (1698), gli valse la conquista delle missioni in Oriente e in particolare della Cina, il luogo più agognato fra tutte le terre da evangelizzare. All’inizio del 1702, allorquando Teodorico in compagnia del confratello Domenico Biasi lasciò Roma alla volta della Cina, la vexata quaestio de ritibus sinensibus divampava ovunque, financo nelle stanze della Facoltà di Teologia della Sorbonne. Sebbene il nostro fosse un Lazzarista, arrivò in Cina come missionario “propagandista”, ossia prescelto e sussidiato dalla Sacra Congregatio de Propaganda Fide, il supremo dicastero romano per l’evangelizzazione dei popoli, istituito il 6 gennaio 1622 da Gregorio XV con l’idea di affrancare la Santa Sede da Portogallo e Spagna. E ciò perché la frequente ingerenza anche della corona portoghese, sostenuta dallo ius patronatus, nell’amministrazione religiosa del territorio cinese rivelò presto le incongruenze di un tacito accomodamento della Santa Sede ai successi militari portoghesi in Africa e India. In effetti, il sovrano di Portogallo ottenne dalla Santa Sede il privilegio, assai inusuale, di ius patronatus sulle terre conquistate, cioè a dire il riconoscimento romano della legittimità delle acquisizioni territoriali in cambio del sostentamento materiale dei missionari destinati all’opera di evangelizzazione. Una condiscendenza all’espansionismo portoghese che de facto significò il limitato controllo della Curia Romana sulle attività missionarie. È superfluo, d’altro canto, rimarcare quanto fosse complesso in tale contesto districare le iniziative di apostolato dagli interessi politici e dalle mire sempre crescenti del colonialismo portoghese. Alla Sacra Congregatio de Propaganda Fide si imponeva allora, per il controllo e la direzione delle missioni in Cina, la disponibilità di propri missionari e lo stabilimento di una gerarchia ecclesiastica volta poi al governo dell’attività evangelica. Gli ostacoli e gli impedimenti avanzati dal Portogallo sono davvero inenarrabili, soprattutto per l’astuzia diplomatica messa in campo e il tenace rifiuto di qualsiasi ingerenza della Santa Sede. Ciononostante, dalla seconda metà del 1696, il piano ideato da Propaganda Fide e sostenuto da Innocenzo XII fu finalmente operativo: al Portogallo si riconobbe quanto concesso da Alessandro VIII, limitando però il territorio e le competenze giurisdizionali delle tre diocesi, cioè Macao, Pechino e Nanchino, sotto patronato portoghese. La Santa Sede, da parte sua, poté così legittimamente rivendicare il governo di ben nove province cinesi e la nomina dei rispettivi singoli vicari apostolici, che, fra il 19 e 22 ottobre 1696, furono con brevi pontifici tutti nominati e destinati ai vicariati di spettanza. Intanto, solo nel 1684 giunsero in Cina i primi missionari sussidiati da Propaganda Fide e tutti provenienti dal Siam, quasi a voler indicare una via diversa da quella percorsa invece dai religiosi sotto patronato portoghese. I primi missionari “propagandisti” furono religiosi francesi (F. Pallu, C. Maigrot, P. le Blanc, L. de Quemener, L. Champion de Cicé e J. Pin) delle Missions Étrangères de Paris, giunti nei mesi tra gennaio e giugno 1684. A Guangzhou, nella provincia del Guangdong, approdarono invece i primi italiani: i Francescani Giovanni Francesco Nicolai e Basilio Brollo da Gemona. Gli uni e gli altri ebbero subito diretta conoscenza dello stato dell’annosa querelle dei riti cinesi e delle divisive lacerazioni generatesi fra i religiosi delle differenti Regole. A uniformare le attività apostoliche e verificare lo stato delle missioni cinesi fu inviato Carlo Tommaso Maillard de Tournon, visitatore apostolico e legato a latere, che giunse in Cina nell’aprile del 1705, anno in cui istituì a Canton, su disposizione e per conto di Propaganda Fide, anche una Procura, che con un procuratore avrebbe provveduto al governo delle proprie missioni, dei missionari destinativi e della loro amministrazione economica. E il nostro Teodorico fu designato proprio come membro della legazione di Carlo Tommaso Maillard de Tournon, sebbene per vari accadimenti fosse approdato a Macao solo all’inizio del 1710, pochi mesi prima della dipartita dello stesso legato a latere, vessato impietosamente da cinesi di corte e da certi Gesuiti.

Pedrini, missionario “propagandista”, non poté che schierarsi con quanti rotearono attivamente in difesa della linea perorata dalla Santa Sede sulla questione dei riti cinesi, risolta alla fine con la pubblicazione l’11 luglio 1742 della Costituzione Ex quo singulari, firmata da Benedetto XIV e atto definitivo di condanna della pratica adottata dai Gesuiti più o meno sin da Matteo Ricci. Non deve allora destare stupore il ricorrente accostamento del nostro a Matteo Ripa, sacerdote secolare, pittore e incisore alla corte di Kangxi imperatore (1711-1723), e al pugnace francescano Carlo Horatii da Castorano, missionario in Cina dal 1700 al 1733, l’uno e l’altro ragguardevoli figure dell’epopea evangelica della prima metà del Settecento, nonostante lo svilimento favorito da molti Gesuiti della stessa epoca e, con essi, da una parte della storiografica posteriore. Varrà la pena allora di evidenziare la familiarità e la vicinanza di Teodorico sia a Kangxi imperatore che ad alcuni del suo figliolame: infatti, con l’arte della musica il Nostro si ingraziò a tal punto l’imperatore da risultare il «più gradito », come ebbe a scrivere il 20 ottobre 1727 al porporato Filippo Antonio Gualtiero (infra, ACMR 37, p. 246).

Le Lettere dalla Missione sono pure il riflesso composito della vita quotidiana del Nostro a corte, senza sottacere alcun sentimento di avversione o di favore per cinesi e religiosi europei. Il milieu che accolse il Nostro in Cina e che ne animò tutta la permanenza, sino alla sua dipartita occorsa il 10 dicembre 1746, fu pieno di avversità di ogni sorta, il cui groviglio così descrisse nella già mentovata epistola al cardinale Gualtiero, allorquando il legato a latere Maillard de Tournon tentò invano di far valere le ragioni della Santa Sede:

Ingiurie, maltrattamenti, rimesse di nuovo con grande rigore le guardie al Signor Cardinale, presi diversi Missionarii obbedienti al Legato Apostolico, e mandati via per forza […] Tanto le Guardie del Signor Cardinale, quanto le nostre erano veramente Cinesi, ma erano come i burattini che si vedono, senza che si vedino le mani che li muovono. Un giorno il Capo di queste guardie ci disse che stavano lì perchè così volevano quei del San patan (così chiamano la Chiesa de’ Gesuiti di Macao). Finalmente doppo alcuni mesi di molestie, siccome fummo fatti prigione senza legittimo ordine di nessun Mandarino, così ancora uscimmo, annoiati di starvi senza verun ordine de’ Mandarini, pochi giorni doppo ricuperata la libertà fui costretto d’assistere al lagrimevole spettacolo della morte del sopradetto Eminentissimo de Tournon, a cui io ebbi l’onore di raccomandar l’anima, e tenerli avanti il crocefisso fin chè spirò, morto di puri stenti, disgusti, e tormenti per la diffesa della purità della vera Santa Fede contro Confugianisti, ò siano Giansenisti di Cina. Doppo ciò fui chiamato a Cantone per ordine dell’Imperatore per poi andare a Pekino; vi arrivai finalmente, et vi sono stato sin ad ora, sempre navigando contro acqua, con tutti gli ostacoli, impedimenti, raggiri, macchine, e furbarie di quei, che vogliono essere soli ipsi in tutto il mondo (infra, ACMR 37, p. 245).

Le Lettere dalla Missione di Teodorico Pedrini sono in definitiva una diversa pagina di una stessa storia, riaffiorata grazie alla strenua e pregevole fatica di Galeffi e Tarsetti e all’ingeniosa volontà della più raffinata tradizione editoriale italiana.

Montréal, 22 luglio 2017.

 

 

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